INCOMPIUTO
Uomo
embrione
ibernato nell’albume
impenetrabile
dell’esistenza, sperma
vetroso immobile
di vita
Uomo uovo
prigioniero del suo stesso seme
antico, antico il germoglio
del dolore, innesto canceroso
che di vita si nutre e dona
morte
Non un gesto, un urlo, ma solo
lo sguardo che buca il nebulo
vivere che mi trattiene
WINTERGARTEN
Dai vetri Vedi?
lasciamo la neve coprire
le nostre paure
Usciamo, dai!
Il velo
di gelo ci avvolge
di quiete
immobile e occulta
la putrefatta bellezza del fiore
che attende tenace
invano
l’estate
Quanto dura l’inverno
del cuore?
ELEMENTO INSTABILE
Nulla che resti
tutto che viene
e fugge in silenzio
e fluttua come un
mare imbronciato
dal vento
anche i ricordi
non sono che
echi confusi
REGINA DEL NULLA
Regina
di abbracci tra ghiaccio
e roccia eterna
o franata,
possiedi in esilio
fatale l’impero
del nulla
Il mio cuore è
un trono vacante un regno allo sbando
LA STORIA SEGRETA
A che occorre vivere
avventure orgasmi dell’anima
fingersi meraviglie
piangere a sé stessi
di gioia
o dolore
o stanchezza
Come sarebbe
saggio tacere
al mondo-riccio la vita
del cuore che anela
a dischiudere corolle d’amore
e di sogni
LA FINE DEL GIORNO
Cielo acquerello di latte
e di gesso questa sera io guardo
a ponente per carpire
ancora un brandello di giorno
ANESTESIA 3
Oro livido
e allegro sulla mia
ferita segreta
che non guarisce
Pensieri fluttuano su sfere
e schiume e gemmano
lievi, senza uncinare
la carne
E la fatica di essere
non pesa più come colpa
o peccato ma trova
sollievo acido e amaro
di succhi e di sonni
DER TRAUM
Abisso
che carezza con fili di seta
di voci il corpo
disfatto sorpreso dall’alba
e lo trattiene un attimo ancora
nell’ombra; che lascia
la notte intrecciare
trame pietose
e leggere sull’oscena
nudità del giorno.
CIRCO 2000
Sono il funambolo che oscilla
sull’abisso in un gioco
mortale e noioso
La vita, lo so,
è fatta di applausi
e silenzio, di luci
e di nulla
E rimango ubriacato
di fatica sempre
in bilico tra equilibrio
e follia
Cado
CHIMICA ORGANICA
Nell’orrore del giorno
qualunque rimane muta
e oscura la pagina
dell’amico poeta
brama lontana di succhi
e di frutti da suggere
e quante strade autostrada senza uscite
ma quante strade sinapsi interrotte
Dicono che la felicità
è solo
serotonina
ROSENGARTEN
Mare grigio
e rosato di flutti
immoti nella loro
pietrificata pace
nel loro trascendente esistere
nonostante tutto esistere
alieni al mondo esistere
nel silenzio non muto
Mente-frana
rovina di anelati cammini
Mente-guglia
che si incarna
del nero e rossastro del mondo
EDELWEIß
É appena più in là.
La vedi?
Eppure non stacco da questo
dolore fatto carne
fatto alba di soli
e aere ammorbati eppure culla
a questa vita aliena
alienata energia dispersa
lungo tentacoli fili
veli di materia gel;
dispersa nell’assenza
di neurotrasmettitori
Eccola, è appena più
in la; ma chi la tocca
muore, l’Edelweiß
NATURA MORTA
Scatto del capo
teso verso
anelate terse montagne
assenti
sull’orizzonte torbido
e decelerazione introspezione
per cogliere respiri
di clorofille e steli
e stami che frusciano accanto
e sfumano
e stato di quiete
per sentire il sussurro che sa
di terra
Ma ero solo, capisci?
Solo, col mondo attorno
SANTA MARIA DEI DERELITI SANTA MARIA DEI DERELITTI
Veci Vecchi
ricordi che bruza ricordi che bruciano
soto la senere sotto la cenere
dei ani, soto la pele degli anni, sotto la pelle
fatase scorsa fattasi scorza
Vecie parole Vecchie parole
lente che parte lente che partono
lontan, gesti calmi (da) lontano, gesti calmi
che conta de pasiensa che raccontano di pazienza
e fadiga e de mestieri e fatica e di faccende e lavori
che no xe fa più che non si fanno più
Veci Vecchi
odori de canfora odori di canfora
e colonia, memoria e colonia, memoria
de santi e de piante di santi e di piante
e dei cicli de luna, coredi e dei cicli lunari, corredi
fruài e tanto lisi e tanto
silenzio: silenzio:
ieri fien, spagna ieri fieno, erba medica
e ridàe; ancuo e risate; oggi
tuto a remengo tutto perduto
Ma cossa ghe xe Ma cosa c’é
in quel cuor che no ghe la mola in quel cuore che non smette
de ‘ndar par sò conto; di andare per suo conto;
che podarà fermarse ma cedere, che potrà fermarsi ma cedere,
mai! mai!
ALIEN
A che serve essere
poeta a nord-est?
Reticolo neuronale
di insegne strade case percorso
dall’impulso riflesso
primordiale del lavoro
e della fatica trasmessoci
dai vecchi
vecchi tribolati
attaccati come grasso d’officina
sulle mani a tozzi di pane
a case da tenere “puìto”
ai “schei” che decretano
più delle parole più
dei pugni chi
è
uomo
E case-tane dove
leccarsi le ferite del mondo
case-trappole tra
“luganega” e internet
In questo villaggio
straniero ormai
dimentico di teogonie
che senso ha il mio essere
diverso essere attonito
raccapezzarmi stordirmi
tra vino nuovo e castagne
e idrocarburi aromatici emessi
da ostentati gioielli gommati
Che senso ha il mio guardare
ammirare altri al lavoro,
guardare e disperdere
energia in futili congetture
su physis e pòiesis
fermarmi
vagare
sognare
ai bordi dei campi?
CORTO CIRCUITO
Voi lo sentite? No, io lo so: è impossibile sentirlo arrivare.
Si avvicina piano, piano, strisciando, senza emettere neanche un fruscio. O forse è già lì: una piccola fessura tra un neurone e l’altro, tra due sinapsi; o forse un impulso nervoso ebbro che devia dal suo percorso intricato.
É il corto circuito del cervello, qualcosa che si rompe nella mente. Non fa male, neanche ci se ne accorge. A volte si scopre soltanto dopo: un errore clamoroso, una svista, una scadenza dimenticata. Oppure ci si rende conto di qualcosa che stona, di un pensiero sbagliato, di un’idea che non si sarebbe mai dovuto avere, di una fantasia-follia.
Allora si comincia a dubitare di sé stessi, la realtà sembra troppo complicata, tutto ci spaventa. Ci si guarda, ci si esamina, si processa l’altro sé stesso che ci sta di fronte. Ma chi dei due è il giudice dell’altro? Quale sé stesso è diventato inaffidabile e traditore e come un cieco ci guida sbattendo contro ogni angolo di realtà?
Comincia il turbine del pensiero; passa da una mente all’altra, sempre più veloce, 0-1, 01, 010, aperto chiuso apertochiuso, sempre di più, da una mente all’altra: da quella raziocinante a quella guastata.
Ci sarebbe da aprire tutto quanto per cercare la rottura, ma è troppo difficile, troppo nascosta.
La tempesta di dati si fa insopportabile, la tensione è al limite: si rischia il sovraccarico.
Brancolando affannati, sprizzando scintille da miliardi di impulsi nervosi vorremmo spegnere tutto, resettare il sistema.
Ma dove sarà l’interruttore?
INFERNO
Si vive all’inferno senza saperlo.
Oh no, non ci si immagini supplizi divini, torture del corpo e dell’anima.
C’è infatti una pena più subdola, quasi invisibile. Comincia al risveglio, ci accompagna al lavoro nelle nostre corazze di latta, ci segue nei viali delle città e negli uffici. E anche la sera, quando torniamo alle case tane essa è lì ad aspettarci finché non andiamo a dormire ed entra, mascherata, persino nei sogni.
É un affanno placido: logora senza fretta, senza violenza, ogni giorno uguale, sempre puntuale. Non lascia scampo, non si può far nulla per sconfiggerlo. Esso è connaturato col fatto di vivere e ci imprigiona in una bolla di nulla. Nemmeno i sogni riescono a fuggire.
Ma ecco l’estrema burla: alla fine del tempo un nulla ancor più assoluto, troppo profondo da comprendere e da cui trarre sollievo.
Vittime inconsapevoli, condannati a vita, mascheriamo la dannazione con barzellette e sorrisi per non guardare l’abisso che ci trattiene
TEMPO
Ognuno di noi ha una ferita. É lo squarcio del tempo.
Esso si è fatto lentamente, di giorno in giorno, viscido, sfuggente, metamorfico. Scivola via da ogni fessura.
É un’emorragia continua, inarrestabile, apparentemente non dolorosa. Solo quando guardi indietro ti prende il terrore di ciò che è fuoriuscito e ti chiedi con ansia che cosa accadrà più oltre.
Oh, com’era diverso una volta, quando il tempo benignamente si contraeva e si dilatava assecondando il ritmo della vita come fosse sangue imprigionato nelle nostre giovani vene.
Ma ecco, tutto sembra farsi buio, e confuso. Ai bordi della ferita è rimasta una bava rappresa.
Non è rimasto già più che un guscio svuotato.
LA FORESTA
Un tempo la vita sembrava una sconfinata pianura. Rare montagne la costellavano, boscose e ridenti.
Il cammino appariva agevole: il sole tiepido rincuorava, la verde distesa profumava di erba e di fiori e prometteva dolci tesori.
Bianchi sentieri indicanti la cima solvacano le alture. Qualcuna, più alta, lasciava intravedere dopo il sentiero facili passaggi tra le rocce placide e nude che superavamo con slancio e con vaga promessa serbata nel cuore.
Dalla cima, con orgoglio ed incanto, ci fermavamo ad osservare la pianura ai nostri piedi, immobile, infinita, e la prossima gobba ancora lontana, lontana.
All’improvviso però, la pianura diventa un intrico di selva e di rovi: non è facile addentrarvisi.
Le montagne diventano enormi e inattaccabili e nessun sentiero solca più gli orridi fianchi. Tuttavia tentiamo, ma ghiaioni e aguzze pareti rendono il cammino sfiancante o, a volte, impossibile.
Allora c’è chi non regge lo sforzo e si abbatte sulla fredda roccia.
Altri impazziscono nel tentativo, penoso ed inutile, di varcare l’ostacolo.
Oppure si cambia strada, e via di nuovo, nella giungla che lega le gambe con le sue dita verdi.
Ma quella che credevamo il nostro dominio è diventata la nostra prigione